Carmine Branco

Attraversando
le campagne
della terra
del mio esilio,
mi sovviene
l’aspro odore
del fumo
delle sterpaglie
bruciate dai contadini.
L’odore del bestiame
al pascolo,
mentre rumigiano
le poche erbe,
ancora verdi,
risparmiate
dal sole rovente
di questa estate
sconosciuta
da questi popoli
dell’isola cullata
dal mar del nord
e dall’oceano.
Rammento
i miei anni migliori,
ancora studente
e sognante,
già toccato
dal destino,
sacrificato
alla solitudine
e al fato.
Ahi! Se avessi
saputo allora
ciò che sarebbe
accaduto poi,
forse ora
sarei, anch’io
a pascolare
tra le ombre
dei miei antenati,
bevendo alle fonti
del Lete,
ignorando
i passi cruenti
che m’hanno portato,
fanciullo eterno,
a vagare,
per mari e monti
in cerca d’amore,
pace e virtù.
Avrei potuto
sacrificare
alle diversiare,
senza sentire
rampogne,
ne subire
disonore
e abbandono.
Ora non ho più Dio!
Non patria, né retaggio.
Mi pute il sangue,
e non mi chino
a false rivendicazioni
di paternità.
Io sono nessuno.
Io sono morto.
Io non ho nome.
Lasciate il mio nome
e pensate.
Usurpatori
non sono eredi
di un donatore.
Non vi conosco
e non voglio
posare labro
su chi ha ripudiato
l’innocente,
ma desidera
i suoi averi.
Ho segnato,
per sempre,
sul vostro volto
il segno di Caino.
Non vi conosco,
non mi appartenete.
Voi l’avete detto
e voluto.
Io ve l’ho dato.
La libertà di chi
da tempo è morto
e, per sempre perduto.
E così sia.